Poco circo e molto Cristiano

Roberto Beccantini19 gennaio 2020

Ai tuoi tempi, caro Pietro, sarebbe stato autogol di Darmian. Oggi, invece, è gol di Cristiano. Quanta nostalgia, in quel minuto di silenzio, e quanta rabbia per la pigrizia di Figc e Lega di non estenderlo a tutto il campionato. La Juventus ha poi battuto il Parma con un altro gol del Marziano – bello, questo, su tocco di Dybala – dopo la capocciata di Cornelius, subentrato al paziente Inglese.

E così Sarri va a più quattro su Conte, bloccato a Lecce dove era stata bloccata persino Madama. Ci va in capo a un primo tempo dominato sterilmente sul piano del palleggio e a una ripresa che i suoi hanno finito per soffrire, nella coda, come capitava anche con altri mister. La cronaca reclama due pali (di Ramsey e Danilo), un paio di parate di Sepe, ma pure una di Szczesny e una di De Ligt.

Dai giardini udinesi ai reticolati emiliani il fio l’ha pagato soprattutto Dybala, anche perché Cristiano non è Higuain, è un cacciatore di episodi, 11 gol in sette partite. Cierre aveva saltato la coppa, il Pipita è entrato, sul 2-1, per comporre un tridente che in quel momento mi sembrava un azzardo: come se avesse fiutato il pericolo, Sarri si è affrettato a ritirare l’Omarino. Anche se Douglas Costa proprio uno stopper non è.

Lo «juventino» Kulusevski ha pascolato fino agli sgoccioli: un sussulto, e stop. Sostituito (da Siligardi). Ramsey e Rabiot mi sono parsi i soliti bicchieri, metà pieni e (spesso) metà vuoti. Non male Danilo, nei panni di vice Alex Sandro. Il Parma di D’Aversa è squadra solida, gli mancava Gervinho, tre reti alla Juventus nella scorsa stagione, la freccia più acuminata dell’arco.

Esce sempre Dybala, direte, dirà: provate a toglierlo voi, il Sultano. Il problema rimane la fase difensiva: non appena il pressing da tifone diventa brezza, i rinculanti si perdono, beccheggiano, rischiano. E sui corner, sbarellano. Titolo alla serata: poco circo e molto Cristiano. Banale?

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Anastasi, centravanti vero

Roberto Beccantini18 gennaio 2020

Si spera sempre, anche quando il silenzio fa pensare, e temere, più del rumore. Pietro Anastasi se n’è andato a 71 anni, era nato a Catania, la Catania di Massimino, di un altro secolo, di un altro calcio. E’ stato attaccante di razza, come si scriveva un volta, dallo scatto rapace, il tiro lampo e non tuono, gli stop a «inseguire» che, senza scalfirne la fame e la fama sotto porta, si trasformarono in una sorta di allegro marchio: di quel securo il fulmine tenea dietro al baleno.

Giocava nel Varese, una tripletta alla Juventus lo portò proprio a Torino quando sembrava già dell’Inter, e con l’Inter stava disputando un’amichevole. Intervenne l’Avvocato, che rifornì di compressori i frigoriferi di Giovanni Borghi, l’allora presidente del Varese. Motori e milioni: 400. Giocò, nella Juventus, dal 1968 al 1976, vinse tre scudetti, litigò con Parola, Boniperti lo girò all’Inter in cambio di Boninsegna: e la storia s’impennò. Poi Ascoli, poi Lugano. Poi la tv.

Fu campione d’Europa nel 1968, con tanto di gol nella finale-bis contro la Jugoslavia all’Olimpico. Uno scherzo in ritiro diventato incidente lo escluse, d’improvviso e proprio in extremis, dalla spedizione messicana del ‘70. I tifosi lo chiamavano «Pelé bianco». Lo cantò Vladimiro Caminiti, siciliano come Pietro, ma di Palermo. Come Causio, leccese, Anastasi era figlio di quel sud che negli anni Sessanta accompagnò il grande flusso migratorio verso Torino, verso la Fiat, verso la Juventus, in un’operazione che unì amori e rancori, difficoltà d’inserimento e senso di appartenenza.

Non aveva le pupille schillaciane, Pietro, ma lo ricordava. Era un centravanti d’area, piroettava in un fazzoletto, la sua polvere da sparo era l’istinto. Lascia il vuoto dei compagni di viaggio che ci hanno regalato un sospiro, un sorriso, un’avventura.

Il vizietto

Roberto Beccantini12 gennaio 2020

Se può interessare, la Juventus è campione d’inverno. Ha battuto la Roma al culmine di una partita che dopo dieci minuti sembrava finita e invece doveva ancora cominciare. Sono, questi, i confini della classe e della sofferenza (auguri, di cuore, a Demiral e Zaniolo), i limiti antichi di due squadre che, l’una, fatica a diventare totale e l’altra, matura.

Tre punti avanti e un passo indietro, il Sarrismo. Che partenza, però. Dieci minuti di fuoco. Gol di Demiral, perso da Kolarov, su punizione di Dybala. Raddoppio di Cristiano, su rigore «regalato» a Dybala da Veretout: rosso, altro che giallo. Juventus padrona e Roma schiava. Punto e a capo. Pjanic e c. si sono messi a giochicchiare, un errore qua e uno sbadiglio là, senza mai, o quasi mai, armare transizioni che, dato lo scarto, avrebbero creato seri imbarazzi ad avversari costretti, per forza, a scoprirsi. Eppure Ramsey sembrava in vena, idem l’Omarino, e persino Rabiot, «portiere» prezioso su Pellegrini.

Cristiano invocava munizioni. Immagino che «C’era Guevara» non fosse contento. Ma l’allenatore è lui. La ripresa è stata un continuo bivaccare ai limiti dell’area di Szczesny, fino all’ineluttabile penalty (gelido braccino di Alex Sandro), introdotto da un palo di Dzeko e trasformato da Perotti. De Ligt, precettato d’emergenza, ha fatto il suo. Non altrettanto Bonucci, soprattutto in fase di rilancio: e neppure Cuadrado.

La Roma non attraversa un periodo felice. Era già stata messa sotto dal Gallo. Ha perso il migliore, Zaniolo, ha profittato del palleggio molto «basso» dei campioni, ricavando una nuvola di corner e tiri vaganti. Ha pagato l’incipit, scellerato. Non ho capito l’uscita di Dybala. La Juventus avrebbe potuto premere il grilletto in contropiede. Con Higuain. Con Cristiano. Non l’ha fatto: e, per questo, ha rischiato alla riffa degli episodi.